Il lavoro in risaia.
La condizione femminile in risaia.
La risaia, dal momento in cui divenne parte integrante e
stabile delle coltivazioni in Lomellina, cointeressò
migliaia di lavoratori ed impose le sue regole,
innanzitutto lo sfruttamento intensivo di larghe fasce di
manodopera femminile, locale ed immigrata (...). Agli
inizi del XX secolo, in base ai dati raccolti dal
Ministero dell'Agricoltura, Industria e commercio (MAIC) e
dal medico lomellino F. Pezza, il rapporto tra le due
categorie di mondariso era così articolato:
lavoratori immigrati 4697 (con - di 15 anni: 1439, con +
di 15 anni: 3258)
lavoratrici immigrate 11722 (con - di 21 anni: 6297, con +
di 21 anni 5425) tot. ambo i sessi 16419
lavoratori locali 4769 (con - di 15 anni: 1340, con + di
15 anni: 3429; lavoratrici locali 15340 (con - di 21 anni:
5889; con + di 21 anni 9451) tot. ambo i sessi 20109 [dati
MAIC] (1904. Circondario di Mortara).
Il dottor F. Pezza era maggiormente preciso nella disaggregazione per età dei forestieri: totale immigrati maschi e femmine 15209, di cui: maschi 4220 (con - di 13 anni: 3,4% dai 13 ai 21 anni, 57,96%, sopra i 21 anni 38,5%) femmine 10989 (con - di 13 anni: 2,6%, dai 13 ai 21 anni: 59,1%, sopra i 21 anni: 37,3%) (...).
Nella composizione per sesso i maschi immigrati risultavano in valori assoluti quasi pari ai lavoratori locali (in percentuale di poco superiori) e costituivano circa un quarto della manodopera complessiva, in seguito diminuiranno, fino ad attestarsi, negli anni del secondo dopoguerra, intorno al 5% circa. I minori di 15 anni erano un po' meno di un terzo del totale sia tra i locali che tra i forestieri (non bisogna dimenticare che non era ancora stata istituita una legge che regolamentasse adeguatamente il lavoro dei minori in risaia) (...). Tra le donne si potevano notare differenze numericamente più marcate per quanto riguardava la composizione per età e i valori assoluti. La percentuale di ragazze con meno di 21 anni superava il 59% tra le forestiere mentre tra le locali non raggiungeva il 40%; in pratica nelle locali erano maggiormente rappresentate tutte le classi d'età mentre le forestiere si concentravano quasi tutte nella fascia tra i 13 e i 21 anni (probabilmente le differenze risulterebbero più vistose se si conoscessero le età medie). Una tendenza di questo tipo (squadre forestiere in proporzione più giovani delle locali) dovette essere sempre presente e compare in modo ricorrente anche nelle testimonianze orali. Per le forestiere la vita in risaia poteva avere un carattere transitorio, nel senso che per uno o più anni si adattavano a vivere in condizioni disagiate per un periodo che oscillava in media fra i trenta e i quaranta giorni.
Si
trattava inoltre, come si è visto, di donne spesso molto
giovani, che potevano quindi considerare la monda, e poi
il trapianto, come una parentesi dura ma nello stesso
tempo in qualche modo unica poiché le liberava per un
certo periodo dalla vita familiare e dai lavori domestici
(...). Ed era innanzitutto questo che separava le mondine
forestiere da quelle locali. Per queste ultime la risaia
non era un fenomeno transitorio ma costantemente presente
nella loro esistenza: esse vi lavoravano per tutto l'arco
della vita e per un tempo per lo meno doppio, o
addirittura triplo, se si considerano anche la mietitura e
trebbiatura del cereale (pur tralasciando gli altri minuti
lavori) rispetto alle forestiere. Il grosso delle mondine
locali era costituito dalle donne dei "paisàn" (braccianti
avventizi) e dei salariati obbligati, seguivano quelle dei
piccoli affittuari (perdapé). Queste ultime partecipavano
spesso alla monda stagionale presso i grandi proprietari
e/o affittuari, svolgendo in molti casi il compito di
caposquadra: si trattava di un indiretto tributo che il
"perdapé" doveva pagare al fittabile a cui era soggetto
per bisogni primari come, ad esempio, la regolamentazione
delle acque (...). Le differenze socio-culturali tra
questi gruppi di donne si traducevano in comportamenti
differenziati, sul lavoro e nella vita privata. Le donne
dei salariati vivevano in cascina ed avevano un contatto
più diretto con le stesse mondine forestiere; per buona
parte di esse il lavoro in campagna era continuativo, da
febbraio a novembre, e inoltre godevano di un posizione
favorevole rispetto alle braccianti poiché, oltre ad
essere più vicine al luogo di lavoro, la loro era una
collocazione stabile. Si trovavano tuttavia in una
condizione di duro sfruttamento dato che il lavoro della
donna nella cascina era strettamente subordinato a quello
dell'uomo e si estrinsecava in una pluralità di compiti
quasi tutti complementari all'attività maschile. Per il
reclutamento (prima dell'istituzione dell'imponibile di
manodopera) le obbligate si trovavano privilegiate in
quanto già inserite nell'organizzazione del lavoro;
questo, sotto un certo punto di vista, poteva
svantaggiarle, costringendole ad alti ritmi per compiacere
l'autorità padronale (una contraddizione presente in tutto
il lavoro obbligato della cascina) ma, allo stesso tempo,
finiva per porle in una condizione di superiorità nei
confronti sia della manodopera stagionale immigrata che di
quella del luogo. In una collocazione affine alle
obbligate, per mansioni e tempi di lavoro, erano le donne
dei "perdapè", costrette ad integrare il bilancio
familiare impiegandosi presso i grandi fittabili o i
proprietari terrieri. Ma la loro non era una posizione
completamente subalterna, innanzitutto perché (sino
all'istituzione del collocamento) l'assunzione veniva
negoziata direttamente dal capofamiglia col datore di
lavoro, inoltre perché, terminata la "giornata", queste
donne si recavano nelle loro risaie e da dipendenti
ridiventavano " padrone". Non era infrequente che il
piccolo affittuario assoldasse una squadra di locali (o
singole mondine) per il "quart" (due ore e mezza). Queste
lavoratrici si trovavano così ad essere subordinate ad una
loro compagna in provvisoria veste di padrona. Dal punto
di vista sociale dunque, le donne dei "perdapé" non si
equiparavano né alle obbligate, né alle braccianti, da cui
erano divise per condizione economica e persino abitativa.
Nell'ultimo gradino dell'organizzazione del lavoro locale
stavano le braccianti. Non parrebbe però esatto affermare
che queste donne, poste nella necessità di arrotondare il
magro bilancio familiare con lavori stagionali, siano
state relegate in risaia ad una funzione puramente
sottomessa; al contrario esse hanno saputo conquistarsi un
ruolo di primo piano nelle squadre. Per la struttura
patriarcale della famiglia contadina la donna non era mai
inserita nelle maglie della comunità come individuo a sé
ma in quanto moglie di, madre di, figlia di; una
situazione di tal genere restò immutata sino al secondo
dopoguerra quando l'industrializzazione da un lato e la
progressiva meccanizzazione delle campagne dall'altro
contribuirono anche in Lomellina a scardinare questo
sistema. Gli stessi antichi patti agrari, frutto di
consuetudini non scritte, la legittimavano quando
obbligavano al lavoro subordinato, assieme al salariato,
anche la sua famiglia senza possibilità di alternative.
Le braccianti, nel contesto conflittuale
delle campagne, vi si trovavano ancora inserite: esse, in
quanto appartenenti ad una famiglia bracciantile, non
avevano altro sbocco occupazionale e condividevano
l'emarginazione degli uomini all'interno della comunità.
La proletarizzazione portava queste donne ad una maggior
consapevolezza ideologica del proprio ruolo (...), così
che nelle squadre si distinguevano perché più combattive e
coscienti dei meccanismi di sfruttamento di cui erano
vittime; da ciò deriverà, ad esempio, una maggior
specializzazione del loro repertorio di canti politici.
Mentre nei repertori delle donne dei piccoli affittuari
mancano questi testi, e sono assenti anche se ben noti, ma
omessi per autocensura, in quelli delle avventizie sembra
esserci una maggior mescolanza di materiale arcaico e
moderno. Del resto la risaia, imponendo alle donne di
ritrovarsi annualmente, per un periodo di tempo fisso e
abbastanza lungo, contribuiva ad innescare scambi
culturali molto vivi (di cui erano partecipi anche i
forestieri) e quindi, indirettamente, a mantenere certi
repertori che altrimenti sarebbero andati perduti. Le
mondine, se pur appartenenti a gruppi sociali diversi,
talvolta antagonisti, erano accomunate poi dalla medesima
condizione di lavoro che poneva loro anche problemi nella
gestione del ménage familiare e nella qualità della vita,
da tutte percepita come particolarmente fragile in quel
periodo. Tra Ottocento e Novecento, mentre
progressivamente anche se lentamente si ebbero
modificazioni nell'orario di lavoro (per cui si passò da
un inizio alle 4 del mattino, alle 5 ed alle 5.30, e da 12
e più ore a 10, 9 e poi 8), aumentò nel medio termine la
fatica delle mondariso locali impegnate, dal momento
dell'instaurazione del trapianto (da maggio a luglio), in
varie occupazioni nuove: estirpazione del vivaio,
trapianto e monda del trapianto. Quindi, mentre le
forestiere furono di regola coinvolte in un solo compito,
monda o trapianto o, in misura minore mietitura (e si può
dire che da questo punto di vista la loro cultura
materiale fosse limitata), le locali erano impegnate in
tutto il ciclo della lavorazione del riso dalla antica
pista alla slottatura, alla monda, al trapianto in tutte
le sue fasi, alla mietitura e alla trebbiatura del
cereale. Lo sfruttamento della manodopera locale si
prolungava per vari mesi, in tale periodo le donne
dovevano organizzare la propria vita domestica in funzione
della risaia, trovandosi così di fronte a difficoltà
sconosciute alla maggior parte delle forestiere. In base
alle testimonianze raccolte si può affermare che uno dei
problemi più drammatici fu quello della sistemazione dei
figli in età prescolare, risolto soprattutto dopo la
grande guerra con l'istituzione regolare di asili e nidi,
molti dei quali sorsero durante il fascismo (...).
Precedentemente poteva accadere che i bambini fossero
lasciati alle cure dei fratelli maggiori o di donne
anziane inabili al lavoro, o addirittura portati in risaia
e, se neonati, posti in ceste ai lati del campo. Quando fu
concessa per legge (1907) mezz'ora di allattamento, molte
donne si sobbarcarono la fatica di ritornare in paese o in
cascina, o di far portare da qualche parente i neonati in
risaia per allattare, con pesanti disagi non riconosciuti
che spesso minavano la salute della donna (...). Un altro
problema da risolvere era quello della preparazione dei
pasti. Nelle famiglie nucleari, se la donna si assentava
per tutto il giorno lavorando nei campi, veniva consumato
un solo pasto caldo la sera. In tempi lontani, quando
l'orario si protraeva sino al tardo pomeriggio, le donne
preparavano spesso l'occorrente per la minestra di riso e
fagioli la sera precedente. Il pasto tradizionale nei mesi
estivi consisteva in un minestrone che aveva spesso tra
gli ingredienti molte erbe raccolte nei campi come
ortiche, dente di leone, papaveri, eruche. Le donne si
alzavano poi prestissimo (le due o le tre del mattino) per
cuocere la minestra nel camino (nel proletariato rurale le
stufe si diffusero soprattutto nel secondo dopoguerra),
mentre sbrigavano altre faccende come il bucato. Alle
fatiche già elevate va aggiunta quella del raggiungimento
del posto di lavoro, anche a 2-3 chilometri dal paese, la
distanza era coperta a piedi, solo negli anni '50 si
diffuse l'uso della bicicletta (...). Tra le due guerre,
quando l'orario pomeridiano si accorciò, molte donne
presero l'abitudine di cucinare al ritorno dai campi. Va
inoltre ricordato che molto spesso l'orario di lavoro era
solo apparentemente più breve rispetto alle forestiere,
poiché molte vi aggiungevano le due ore e mezzo del
"quart" (...). Un'altra attività comune era quella di
andare, terminato il lavoro in risaia, a spigolare il
grano. Era un'usanza antica: il grano racimolato veniva
trebbiato nei solai e nei cortili con rudimentali
attrezzi, spesso semplici bastoni. La paglia serviva per
il piccolo bestiame da cortile mentre la farina ottenuta
era impiegata per l'alimentazione umana (pappe per gli
infanti e i malati, panificazione). Queste mansioni
supplementari e integrative dell'economia familiare
spettavano alle donne, ai minori e agli anziani. La
battaglia per le otto ore del proletariato lomellino
dovrebbe, in questa prospettiva, essere intesa anche come
una battaglia per conquistare tempo da dedicare ad
attività integrative, necessarie per alleviare
parzialmente lo stato di bisogno e di diffusa povertà. Ma
nella lotta per la diminuzione dell'orario le locali
trovarono forti ostacoli nelle forestiere che, se pur
sfruttate, erano tuttavia poco sensibili a questo tema
poiché vedevano la loro presenza in risaia come
provvisoria ed erano interessate ad un lavoro intensivo e
di breve durata non solo per risparmiare le spese del
vitto (di regola detratte dalla paga) ma anche perché non
avevano l'esigenza di disporre di altro tempo da spendere
al di fuori delle ore trascorse in risaia. Le locali
invece dovevano ridurre le ore dedicate alla famiglia e
alle faccende domestiche, concentrando in un limitato
periodo alcune mansioni inderogabili come la cucina, il
bucato, la cura dei bimbi, ecc., con evidente aumento
della fatica quotidiana. Se si considera poi la giornata
della mondina locale nella sua globalità, con tutto il
corollario delle mansioni domestiche e dei lavori
extradomestici, occorre allora parlare brevemente anche
dell'alimentazione, un fattore determinante per valutare
la qualità della vita. È noto che i generi alimentari dei
mondariso forestieri erano scadenti e miseri, tuttavia
anche l'alimentazione delle locali non si deve immaginare
migliore.
Il
pasto caldo era uno solo, di sera; all'alba di solito si
partiva digiuni, per consumare un pezzo di pane
nell'intervallo di colazione, e pane e companatico nella
pausa del pranzo. Ma soprattutto nell'ottocento e sino
alla grande guerra, quel pane, cotto ogni otto giorni, era
spesso "umido e verde" e il companatico si limitò sempre
ad una cipolla cotta nella cenere, e frutta raccolta qua e
là o comprata per pochi centesimi. Solo durante il
fascismo e nel secondo dopoguerra si poté disporre di una
dieta più variata ma sempre scadente dal punto di vista
nutritivo e organolettico per la presenza di cibi come
marmellata, cioccolato, mortadella.
Nel complesso un'alimentazione insufficiente e carente che coincideva col momento in cui la donna era chiamata a una notevole mole di lavoro, peggiorata dalla cattiva qualità delle acque, l'uso del "barlàt", il barilotto di legno a cui tutti bevevano non era certo raccomandabile dal punto di vista igienico. Questo regime alimentare, in fondo non dissimile di molto da quello delle forestiere, e che resterà a lungo quasi invariato, era determinato da una condizione di miseria molto diffusa tra il proletariato rurale.
M. Antonietta Arrigoni
(da "Mondine di Lomellina. Riti, cultura, condizione femminile in risaia" in "Mondo Popolare in Lombardia - Pavia e il suo territorio" a cura di Roberto Leydi, Bruno Pianta, Angelo Stella, 1990, Regione Lombardia, per gentile concessione dell'Autrice e della Direzione Generale Cultura della Regione Lombardia).