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La Raffineria
Un paese in Lomellina: la storia, le tradizioni, il lavoro, la gente...

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Il lavoro, ieri e oggi.

In filanda (La bachicoltura)

Via Marconi, un tempo: a sin.
                la filanda.La filanda, un edificio lungo circa duecento metri quasi di fronte alle scuole di Via Marconi, era in origine un bottonificio. In seguito, con Gaetano Fassi e poi con Marino Montanari, si passò alla lavorazione della seta. Per quei tempi, gli anni precedenti la guerra 1915-18, era una fabbrica molto grande, l'unica del genere nella nostra zona. Prima di Sannazzaro i Montanari avevano allestito altre filande a Dorno e a Castelnuovo, entrambe chiuse, una perché troppo piccola, l'altra perché i bachi cominciavano a scarseggiare. Fu così che Sannazzaro divenne il principale punto di raccolta dei bachi in Lomellina, rastrellando una vasta produzione che interessava, chi più chi meno, tutte le famiglie della zona. Ad occuparsi dei "bigat", i bachi da seta, erano soprattutto le donne e i bambini, anche se in certi periodi doveva lavorare tutta la famiglia. I fortunati avevano una stanza solo per i bigat, ma i più ritagliavano un po' di spazio in cucina o nella camera da letto per arrotondare così le entrate. I bachi diventavano per amore o per forza parte della famiglia e non ci si stupiva del fastidio di trovarseli nel letto. Alcuni producevano in proprio la semenza, cioè le uova, mentre altri la acquistavano in piccole pezze di stoffa vendute a peso da persone, per così dire, specializzate che seguivano poi tutta la maturazione dei bachi. Le uova, tenute al caldo, si schiudevano in primavera liberando minuscoli bruchi. Allora cominciava il lavoro, prima lento, ma poi sempre più veloce per star dietro alla rapida crescita dei bigat. I bruchi venivano riposti su stuoie appoggiate alle pareti. Dapprima bastava un piccolo spazio, ma i bigat venivano poi spostati altre quattro volte. La loro principale occupazione era mangiare e, di conseguenza, la principale occupazione delle famiglie era nutrirli, a base del loro unico cibo, le foglie dei "muron", dei gelsi. Queste piante erano abbastanza numerose nelle campagne; i più fortunati ne possedevano qualcuna vicino a casa o nei propri campi, mentre altri dovevano comprarne le foglie da chi ne aveva in abbondanza. Non mancavano poi i soliti ignoti che si arrangiavano, complice la notte, a procurarsi di nascosto un po' di foglie, dando così origine ad interminabili liti da cortile. Procurarsi le foglie dei muron era un lavoro destinato soprattutto ai bambini e ai ragazzi. All'inizio si faceva un letto di foglie su cui si adagiavano i bigat e due o tre volte al giorno si davano altre foglie tagliate a pezzettini. I bigat alternavano per quattro volte momenti di voracità a momenti di letargo, finché, diventati quasi trasparenti, cominciavano a "tra la testa". Era segno che stavano per fare il bozzolo e bisognava "imboscarli". Fra una stuoia e l'altra venivano perciò sistemati rami essiccati di ginestra o di pioppo, su cui i bigat si arrampicavano. Così sistemati cominciavano ad ancorarsi ai rami producendo una bava bianca. Non si trattava ancora di seta e quello non era che una rudimentale impalcatura per costruire il bozzolo. Ma nel giro di una settimana il lavoro era terminato, il bosco veniva smontato e tutta la famiglia staccava i bigat, li ripuliva dalla prima bava e li sistemava in ceste. Erano i primi giorni di giugno e i bachi, dopo due mesi di lavoro, venivano consegnati alla filanda. Non per tutti però arrivava il momento della raccolta e del guadagno. I bigat, infatti, potevano ammalarsi e andare a male, a causa di due differenti malattie, il "calcinen", che disidratava i bachi rendendoli duri come sassi e il "marson", che, al contrario, li faceva marcire. Allora erano proprio dolori, un vero lutto, perché in una sola volta sfumavano il guadagno dell'estate e i soldi investiti nell'inverno. Alla fabbrica, la prima fase di lavorazione era l'essicatura per rendere più asciutta la seta e per far morire i bigat all'interno del bozzolo prima che, trasformatisi in farfalla, uscissero spezzando il filo. Dopo la monda del riso, le donne ritornavano alla fabbrica e cominciava il grosso del lavoro che avveniva in una lunga sala percorsa da due file di tavoli. Su di essi c'erano numerosi catini in cui l'acqua, scaldata dai tubi che percorrevano tutta la sala raggiungeva i 70, 80 gradi. Attorno a ciascun catino c'erano diverse operaie. Una, la "scuera", gettava in acqua i bruchi morti, la "galeta", mentre una spazzola meccanica li rigirava, e un'altra donna, la "filera", doveva formare il filo. Era un compito delicato: cercava il capo del bozzolo e lo faceva attorcigliare all'aspo dove, con altri fili, formava un unico sottilissimo filo che andava a raccogliersi in una sola matassina. I nuovi bozzoli non dovevano mai mancare nel catino e i fili in esaurimento venivano alternati a quelli nuovi affinché il filo lavorato non avesse variazioni di spessore. Se qualcosa non andava la "filera" schiacciava un pedale, l'aspo smetteva di funzionare e il filo veniva sistemato. Una "filera" in media produceva 7- 8 etti di seta, ma le più veloci arrivavano anche al chilo. Alla fine della giornata, dopo dieci, undici ore di lavoro, la seta veniva sottoposta a diversi controlli. Se ne verificava il peso al metro e la resistenza. La seta per le calze era la più sottile, con un filo composto da tre o quattro bozzoli solamente, mentre altri tipi di filo erano destinati ad altri tessuti. Era un momento di grande tensione, con i padroni nervosi e le operaie accalcate fuori dalla porta della sala controlli ad aspettare il verdetto. Molte volte, erano urla, mentre altre volte la seta andava bene e le matassine, intrecciate, potevano essere imballate. Non veniva scartato quasi niente, nemmeno le ultime rimanenze in fondo ai catini che formavano un ammasso molliccio, la "falopa": gettata in una grossa vasca d'acqua, i bachi morti precipitavano sul fondo, mentre la seta, di seconda scelta, veniva riunita e venduta a peso da filare. La seta di prima scelta invece, raccolta in casse da un quintale, veniva inviata alle seterie di Como e trasformata in pregiati tessuti. Questa è stata la vita di Sannazzaro a cavallo fra le due guerre, finché, con l'avvento di altre fabbriche, la filanda cominciò a perdere le operaie, che preferivano lavori meno sporchi e faticosi e a non avere più l'indispensabile allevamento dei bigat perché la popolazione era assorbita da altre attività. Cominciò così un incontrastabile declino, che fece scomparire insieme una realtà contadina ed una industriale.

Isabella Montini

(Riduz. e adat. da "L' allevamento del baco da seta e la filanda", L'Eco di Sannazzaro n.1, marzo 1997).

 

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