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La Raffineria
Un paese in Lomellina: la storia, le tradizioni, il lavoro, la gente...

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Artisti sannazzaresi di ieri e di oggi.

Michele mainoli - La critica.

Autoritratto.

 

 

 

 

 

 

 

 

La fabbrica di cieli (Il mondo pittorico di Michele Mainoli) di Bruno Galvani.


Ricordo di un grande incisore e di un amico di Giorgio Trentin.


Analisi critica de "L'Autostrada del Sole nella valle del Reno" di Roberto Carlo Delconte.


Piccola Antologia Critica

La fabbrica di cieli ( Il mondo pittorico di Michele Mainoli).

Personaggio divaricato questo pittore, in bilico fra Lombardia e Piemonte, tra goticismo nordico e luminescenza mediterranea: dalla quale duplicità ha ricevuto stigmate stilistiche per la sua arte. Anomala la sua vicenda pittorica. - Onorato, elogiato, stimolato da tanta critica illustre, ha voluto sospendere il suo itinerario esteriore rifugiandosi in un decennale, conclusivo silenzio, rompendo ogni contatto con l'ufficialità. - Forse egli volle consumare la sua ricerca artistica nella propria intimità ispirativa. Una tale scelta intimistica non deve però stupire: chi ha conosciuto Mainoli sa per certo che nella sua vita interiore egli consumava la propria felicità. Al di là della sua dipartita è rimasta la sua opera, pittorica e grafica. Dopo tante schegge critiche che hanno siglato le sue esposizioni è doveroso tentare una sintesi della vicenda di questo pittore, schivo e riservato quanto invece erano comunicative e diffusive le sue opere. Quale dunque l'autentica dimensione che a Michele Mainoli compete? In quale corrente o movimento collocarlo? La critica s'è già preoccupata di trovargli illustri ascendenze. Così si sono volute trovare tracce stilistiche risalenti a Bruegel, a Van Dyck, a Bosch, a Cranach, su fino a Klee, a Feininger, a Giacometti, ma anche rimandanti a Masaccio e Signorelli. Rimandi comprensibili se si pensa che la cultura è assimilazione del già esistente. Nessuno, però, può pensare di essere più vicino al vero di quanto Mainoli abbia detto di se stesso: "Non posso riconoscermi in una corrente ben specifica: per il gusto dell'etica e dell'estetica nel classicismo, per la passionalità e il tormento nel manierismo, per la ricerca della verità nel realismo, per la libertà di espressione nel surrealismo". - (Intervista a Enzo Schiavi - Gennaio 1983). Eppure è nostra convinzione che le radici autentiche dell'arte di Mainoli affondino in un retroterra che gli è esclusivo. Nella mia pittura - egli stesso ha detto - c'è il tentativo di recuperare la storia nei suoi valori universali. I miei soggetti sono l'uomo e le cose. Non credo all'arte decorativa, priva di contenuti, disimpegnata. Sono un figurativo perché non voglio allontanarmi dall'uomo. La figura per me è un "medium" che mi aiuta a recuperare il senso della storia. La deformazione delle figure, che è una delle mie caratteristiche, é indispensabile per sottolineare gli aspetti della realtà che più mi interessano. In fondo tutta l'arte è deformazione, una creatura complementare. La pittura deve nascere dall'incessante lavoro della immaginazione che cerca di penetrare sotto la crosta del visibile. (Intervista a Gennaro Pessini - Dicembre 1975). L'humus da cui prendono vita le sue opere è costituito dalla sua posizione esistenzialistica. A lui non interessa l'"essere", l'"in - sé" delle cose e del mondo, quanto l'"esserci": è il qui e adesso della vita e dell'umanità che suscitano la sua attenzione; è la consapevolezza di un mondo decaduto e deprivato della sua infanzia felice, d'un'umanità umiliata nella sua sconfitta, negata ad ogni possibile redenzione. Ne deriva una filosofia esistenziale dai paradigmi negativi, il cui esito finale è un pessimismo che non ammette correttivi. Cieli, figure, allusioni, sfondi pittorici recano, nei quadri di Mainoli, lo stigma di un tale fondamento pessimistico. Forse è proprio in questa radice esistenziale che trova spiegazione il ripiegamento dell'Artista in se stesso. Nell'intimità della meditazione egli può costruire e correggere, negare o affermare, senza che l'esistenza, dal di fuori, proclami la sua tirannia: il male del vivere trova in quella interiore meditazione la sua catarsi, la possibilità d'una sopportazione. Colori, impianti, persino deformazioni trovano la loro genesi pittorica in quei presupposti esistenzialistici, senza la cui conoscenza diventa riduttiva la lettura delle opere di Mainoli. Su tale sottofondo meditativo trovano quindi proficuo innesto le tipiche connotazioni del nostro Artista. Egli ama anzitutto il mito. Ne ha trattato pittoricamente sia in senso classicistico che in senso biblico-religioso. - In lui il mito diventa il simbolo del modo di essere a cui aspirare. - Esso resta legato, per Mainoli, ai valori di cui l'uomo è rimasto privo, a qualcosa che non c'è più, che è migliore perché diverso, che può dare felicità dal momento che la condizione in cui si vive non è soddisfacente. - È nel mito che l'Artista recupera un valore positivo, intendendolo come una proiezione verso il bene. Altre motivazioni sono però riscontrabili in quella pittura. Ad essa è riferibile una triade di contenuti: religione, metafisica e poesia. II Cristo, in particolare, e la sua suggestione parabolica sono compresenti nella sua arte. La sua religiosità sta nel cercare un demiurgo che gli renda accettabile il dolore per il vivere, che innalzi al soglio della Divinità le pene degli uomini; nel Cristo egli ha trovato il compagno di pena, Colui che ha sublimato l'amore, redento il male, donato una resurrezione. Per questo Mainoli ha dipinto uno splendido Cristo risorgente da collocare all'interno della sua cappella di famiglia, nel cimitero di Sannazzaro de' Burgondi: un compagno per il viaggio di poi, come introduzione al mistero ultimo. Si è unanimemente parlato da parte della critica di un "Realismo" riscontrabile nella pittura di Mainoli. Ma è il caso di intendersi. Forse si parte da un inizio realistico, ma l'approdo è metafisico. Una metafisica da valersi nel suo significato etimologico e non filosofico: si tratta di un percorso che inizia, sì, dal dato reale per poi spingersi, però, oltre il limite della pura materialità. E allora pare proprio che per il nostro pittore la formula più idonea sia quella del "réel du fantastique". Figura umana, cieli, paesaggi, sfondi, sono realtà iniziali Che la fantasia di Mainoli trasfigura a suo piacimento, secondo un'inventiva costantemente mobile. Non si tratta di una metafisica dechirichiana sospesa tra il silenzio e l'assurdo, ma di una componente dinamica che ha per suo punto di partenza il dato fisico e per conclusione la sua trasformazione fantastica. - Anche quel modo di spolpare i corpi, di allungare gli arti, di deformare i volti risponde pienamente ad una fatturazione metafisica. Epperò su tutto, sul pensiero e sulla forma si stende il tenue velario della poesia. Se Paul Valéry ha detto che la poesia è un'esitazione prolungata tra suono e senso, per Mainoli non resta che sostituire al termine "suono" quello di "colore". La sua poesia consiste nel modo di costruire più spazio tra ciò che il dipinto vuole immediatamente dire e ciò che esso può significare nella sua eco, questa essendo più profonda ed elaborata. In tal senso la sua poesia si fa lirismo, là dove per lirica è da intendersi poesia del profondo. E il profondo di Mainoli è un paesaggio sterminato e mutevole, dove si avvicendano le forme del pensiero, i desideri, i sogni, le incertezze, i timori. - In quella profondità poetica l'Artista ha compiuto gli atti fondamentali della sua vita, quelli che hanno stimolato la sua coscienza. E lo strumento che gli ha permesso di portare alla luce la sua interiorità è stato il colore. Colori caldi e colori freddi sono stati i segni alfabetici della sua espressività. Ma tre di loro, su tutti, hanno dominato: il blu, il giallo e il rosso. Non mai completamente puri ma compenetrati in stesure ammalianti, capaci di ammorbidire l'irruenza della loro naturale cromia. Non c'è ricordo invece del bianco, forse pensando ad un'innocenza perduta. La maestria cromatica di Mainoli sta appunto nella sapienza con cui egli ha saputo armonizzare la prepotenza di quei tre colori; per cui i suoi quadri sono sempre cromaticamente forti, ma mai disarmonici; incisivi, ma mai deliranti. Sono colori armonici alla sua anima, Ne sono testimonianza i suoi cieli. Non c'è in essi lento degradare di toni, ma sospeso svaporare dal blu al giallo. Sono cieli che sembrano inizialmente gravare sulla composizione, per concedersi alla fine ad un barlume di schiarita in cui sembra rattenersi una possibilità di speranza. Sono cosi tanti e belli i cieli di Mainoli, da poter dire che egli diede vita ad una "fabbrica di cieli". Oltre il pensiero sta per lui un altro elemento stimolatore: l'Eros rappresentato da colei che, per eccellenza, lo incarna: la Donna. Essa diventa sostanza della sua pittura, vista nella pluralità delle sue incarnazioni: edenica nella sua struttura fisica; simbolica dell'eterna bellezza; sirenica nel suo irresistibile richiamo sensuale. È un Eros inteso come forza, come energia vitale: proprio come lo concepì la mitologia greca, quando fece di lui uno degli Dei più antichi, la forza fondamentale della Natura: quella di coesione, in virtù della quale gli atomi, quasi per una legge d'amore, si uniscono a formare le cose. Senza la Donna, sembra dire l'Artista, l'esistenza degli uomini sarebbe una dimensione in grigio, senza fremiti e senza estasi. "Rappresentare il sesso - diceva Mainoli - è liberare se stessi, sublimare la propria sensibilità. L'Eros è gioia, espressione di universalità; in arte l'erotismo non ha valore". Per il rapporto che esiste fra arte e vita, si può dire che Mainoli consumò se stesso e la sua pittura in solitudine. La solitudine fu la sua Musa, poiché gli permise di meglio auscultare le insorgenze profonde del suo "io". Visse in un mondo dominato dallo "spleen" di Baudelaire "quando come un coperchio il cielo pesa / grave e basso sull'anima gemente / in preda a lunghi affanni...". La solitudine fu la dimensione della sua macerazione: "La vita, la mia vita, ha la tristezza / del nero magazzino di carbone..." (U. Saba). Eppure fu, quella solitudine, uno stato d'animo assai fecondo. Essa generò una sofferta meditazione dalla quale alitarono pensiero e voci per la composizione di tutte le sue opere. Il suo essere schivo, la sua riservatezza, persino la sua ritrosia furono forse paura di contaminazione del suo mondo contemplativo. Ma mai fu forma ài inimicizia verso gli uomini. Oggi è possibile dire che quella solitudine e quel pudore gli salvarono l'anima. E in fondo a quella solitudine si profilò, costante, il mistero, come egli stesso ebbe a dire: "L'artista spiega il mistero della vita, costruisce un mondo spirituale, e lo fa con il colore, espressione del suo linguaggio, e con l'autobiografia, materia prima di studio. Ripetere se stessi, riflettere se stessi nello specchio poliedrico dell'esistenza, vincere la nebulosità dell'inesperienza, questa la vera arte. L'artista scandaglia l'animo umano, parla il linguaggio puro dell'esistenza; perciò è solitario, attento a capire, a costruire, a conoscere. Fu questa la sua ansia per oltrepassare il limite dell'inconoscibile; sua ne è la testimonianza: "Dipingere è tentare l'impossibile, vivere il mistero della vita, un mistero affascinante, nel quale anche il buio si colora". E quando il mistero fu troppo compatto per le sue forze, allora trovò consolazione in quel compagno di viaggio che fu il Cristo crocifisso: "sapeva - come è stato detto - di portare Dio con sé" - (P.G. Agnes).

Ora egli vive oltre il mistero, in una dimensione senza tempo né spazio, dove gli sarà possibile "dipingere l'anima del cielo". Quaggiù sono rimaste le sue opere, figlie dell'anima sua: sono opere ignude che attendono di essere rivestite con la nostra meditata contemplazione. Perché le opere, si sa, sopravvivono sempre al loro Autore. Incontrando, in questa occasione, quelle opere sarà reso possibile a tutti noi accostare un Uomo, un Artista vero, nel senso più eletto della vicenda esistenziale.

Bruno Galvani

(Da "Omaggio a Michele Mainoli" , catalogo pubblicato a cura dei Comuni di Castelnuovo Scrivia e di Sannazzaro de' Burgondi in occasione delle Mostre personali tenutesi nelle due località nell'agosto - settembre del 1991).

 


Ricordo di un grande incisore e di un amico.

Questa non vuol essere altro, per rispetto all'artista scomparso, che una semplice ma commossa testimonianza affettiva nei confronti di un personaggio a cui fummo profondamente legati da immensa, fraterna, amicizia. Di un personaggio che non fu soltanto questo per noi, ma nel cui vasto operare fummo in grado di recepire la presenza di una tra le personalità più significative e originali dell'incisione italiana contemporanea, tra gli inizi degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Settanta, e come tale soltanto, indipendentemente dagli altri campi di ricerca in cui egli profuse il proprio ingegno, tra i massimi esponenti dell'arte giovanile italiana in quel periodo. Un'amicizia ultra trentennale, la nostra, i cui legami, gli eventi politico - culturali nello svolgersi di questo prolungato scorrere di tempo, avrebbero sempre maggiormente saldato, spesso in una comune visione delle cose, portate a nascere e rapidamente a maturarsi sin dagli inizi dei nostri primi incontri in occasione della preparazione della II Biennale dell'incisione italiana contemporanea a Venezia, tra la fine del '55 e gli inizi del '56 e poi via via rapidamente approfonditasi con la piena adesione, nel 1959, alla battaglia culturale condotta, nella visione unitaria di una prospettiva nazionale da quell'Associazione degli Incisori Veneti nel cui ambito venivasi, certamente, identificando uno dei centri motori di un certo tipo dl rinascita dell'incisione italiana e ciò nonostante la dichiarata ostilità, nella propria profonda ignoranza, manifestata, con costanza degna di miglior causa, dalla critica ufficiale e dalla Cultura accademica. Era stato allievo, per l'incisione, all'Accademia di Brera a Milano, negli anni '45-'49 del veneto Benvenuto Disertori, personalità di spicco di quell'Ateneo, poi, con gli anni '52-'53, anche Egli autorevole partecipe della nascente attività dell'Associazione degli Incisori Veneti. Come pure allievo del Disertori, sarebbe stato, poi, poco tempo dopo, anche un altro personaggio di rilievo dell'Incisione Italiana, quel Giuseppe Guerreschi con cui non pochi contatti Michele Mainoli avrebbe avuto alla San Fedele, a Milano, fino al punto di aver potuto avvertire, in taluni momenti, tra i due, la comunità di un medesimo clima ambientale, di una medesima atmosfera emotiva, anche se da entrambi, poi, affrontata nei termini di una quasi assoluta contrapposizione, di violenza e di ribellione in Giuseppe Guerreschi, di maggiore e più drammatico, intimo e commosso pessimismo, di più sofferta e dolorosa accettazione della tragica ineluttabilità di certi eventi, anche se nella chiara, consapevole denuncia delle minacce e delle ingiustizie, degli attentati alla dignità umana, in Michele Mainoli. Nel quale avrebbero, innanzitutto, colpito la raffinata, eccezionale, straordinaria sensibilità tecnica in cui il mestiere già di per sè assurge al valore di opera d'arte, una tecnica basata sia sulla complementarietà d'impiego dell'acquaforte con la capacità di surreale trasfigurazione dell'acquatinta, nella risultanza di una materia preziosa densa di cromaticità nell'intensità dei contrasti chiaroscurali, sia al puro ed esclusivo intervento dell'acquaforte così sottilmente lavorata, in taluni settori della lastra, in un processo di minuta, capillare, impalpabile punteggiatura, nella tensione di un clima di intime, sofferte meditazioni, da raggiungere quasi gli effetti soffici dell'acquatinta, mossa tuttavia da una maggiore, più delicata luminosità della materia. E poi immediatamente dopo, nel clima di una intima, commossa e preoccupata partecipazione umana, l'affiorare, come proveniente dagli echi di universi lontani. di un mondo misterioso e quasi surreale di esseri diseredati e spogli, di umili personaggi sentiti, avvertiti nella scarna e severa, quasi spettrale scheletricità dei loro corpi disarticolati, sconnessi nel ritmo angoscioso delle loro quotidiane vicende di miserie e sofferenze, di umilianti sopportazioni. Nell'atmosfera livida, carica di inquietudine e di ansietà, di squallida, gelida desolazione, sempre priva di ogni prospettiva e di ogni via d'uscita, senza alcuna speranza di riscatto e di salvezza, quasi kafkiana, di una umanità di esseri sofferenti, di poveri, di vinti e di soccombenti, come muti e schiacciati sotto il peso soffocante di immense disperazioni, di dolori e patimenti infiniti assurti, sembra, quasi a stessa ragione d'essere, ed unico, vero, esclusivo patrimonio della loro esistenza. Come abbandonati e confinati ai margini lontani, estremi, della civiltà del Miracolo Economico, emarginati nella tristezza infinita e nella solitudine dei lager nelle lontane, nude periferie nei cui spazi, di un surreale grigiore, la crescente e spietata esasperazione dei consumi e dei profitti di una società sempre più dimentica dell'uomo e dei suoi bisogni verrà relegandovi, come in un tragico dimenticatoio, tutti coloro destinati, ormai, nello sfruttamento già avvenuto, a non poter più risultare di alcuna utilità alle sordide insaziabilità dei propri appetiti. E colpisce, ancora, in questa tragica, sottile, penetrante radiografia di una disperata vicenda umana di sogni e di speranze infranti nei cui infiniti spazi, dilatati negli echi e nelle pulsazioni provenienti dai tempi di memorie antiche, sembra quasi inconsapevolmente affiorare la radiografia emotiva dell'immagine di un proprio, intimo, paesaggio interiore il cui segreto pulsare, nel calore di mille impalpabili commosse sensazioni, Egli veniva mascherando e difendendo, dagli sguardi degli intrusi e dei profani, dietro le chiusure di un estremo pudore, di un ritegno e di una discrezione infiniti. Di un ritegno portato, tuttavia, bruscamente a sciogliersi e a diradarsi in quel tipico e ridente luccichìo degli occhi castani, in quel sorriso così ricco di infinite sfumature affettive illuminante la naturale tristezza del volto, così fortemente portati a contraddistinguerlo allorché, nonostante l'innalzarsi istintivo di un tale muro protettivo, Egli si sentiva trascinato nei termini di una crescente sintonia con l'insistente e tenace ma affettuosa volontà di scoperta e di comprensione testimoniata da un proprio non più occasionale e superficiale interlocutore. Giacché per un animo cosi straordinariamente raffinato e sensibile, di una sensibilità e di una emotività epidermiche, quasi morbose nella loro capillare percettività, ma, nonostante il rigore e il coraggio, la coerenza delle scelte morali, mai venuti meno, anche nei più difficili, dolorosi momenti, facilmente aggredibili e offendibili dalla brutalità naturalmente insita in un sistema concepito sulla violenza e sulla esasperazione del profitto ad ogni costo e con qualsiasi mezzo, difficilmente, nella arida, spietata giungla d'asfalto caratterizzante il nostro vivere ogni giorno più incivile, Michele Mainoli avrebbe potuto godere di prospettive di reale, autentico successo. Egli infatti, nonostante talune, assai brevi, momentanee soddisfazioni raccolte a Milano, in Svizzera, a Zurigo ove a più riprese ebbe ad operare e ove, per un momento, sembrarono aprirsi notevoli prospettive, poi svanite nel nulla, a Venezia, con le Biennali dell'Incisione italiana contemporanea e con l'Associazione degli Incisori Veneti alle cui vicende ebbe, per un tempo assai lungo, effettivamente a partecipare in Italia e all'estero, sino agli inizi degli anni Settanta, Michele Mainoli, salvo gli addetti ai lavori, non godette mai, sfortunatamente, Lui vivo, di quel1'ampio riconoscimento, di quell'ampia consacrazione nazionale che il suo valore avrebbe pienamente giustificato e che competerà ai critici e studiosi più avveduti attribuirgli in un futuro speriamo assai prossimo. Anche, come ripeto, per personali, psicologiche incapacità nell'affrontare con la necessaria spregiudicatezza la soluzione dei propri problemi in una società già di per sé basata sulla forza e la crudeltà e non disposta a concedere nulla gratuitamente e per una propria naturale predisposizione alla solitudine e all'isolamento che lo portarono, dagli anni Settanta in poi, a rinchiudersi nel clima, non privo di antiche suggestioni, ma appartato e distaccato dalle grandi linee di contatto e d'incontro, di scambio, di Castelnuovo Scrivia, lontano dai rumori e dalle tempeste. Anche perché le condizioni di salute sarebbero andate via via peggiorando. Ci incontravamo ogni due o tre anni, allorché per un intimo, insopprimibile bisogno di contatto con un personaggio la cui amicizia e il cui affetto ci erano cari, indispensabili, andavo a salutarlo proprio a Castelnuovo Scrivia, giacché a Venezia, dalla fine degli anni Settanta, non sarebbe più venuto e nel nostro costante, affettuoso, tentativo di scuotimento, di incoraggiamento, di incitamento ad una concreta ripresa di quello che era stato un grande operare, ogni quale volta rivedendo con Lui i tesori preziosi, nell'incisione come nella pittura, rivelatrice della mano eccezionale di un grande miniaturista, che il suo impegno aveva saputo accumulare, ma sconosciuti ai più, ci colpivano i sentimenti di infinita disperazione e di tristezza per la tanta incomprensione, per le tante umiliazioni e chiusure subìte, le ipocrisie e le falsità sopportate spesso di non pochi tra i preposti alle gestioni delle cose pubbliche. L'ultimo viaggio a Castelnuovo Scrivia lo feci, anche sollecitato dalla compagna sua e dai figli, preoccupati per il divenire delle cose, se ben ricordo, nel mese di marzo del 1990, e fu l'ultima volta che stemmo insieme per qualche ora. Stava già male anche se sforzavasi di credere in un possibile ricupero del proprio impegno e questa speranza la volle testimoniare con l'invio, dopo vari anni di assenza, di due notevoli acqueforti di cui una "II Circo" assai recente, del 1983, all'importante rassegna dell'Associazione degli Incisori Veneti tenutasi a Bagnacavallo, nella sala del centro culturale polivalente, nel maggio del 1990, dietro invito della Civica Amministrazione di quella così significativa cittadina romagnola e sotto gli auspici della Regione Emilia - Romagna e della provincia di Ravenna, Poi nel 1991, agli inizi di febbraio, l'annuncio del precipitarsi delle cose, e subito dopo, dalla immatura scomparsa. Che altro aggiungere? II vuoto da Lui lasciato è notevole, profondo, immenso per gli amici, per chi Lo conobbe e gli fu vicino e seppe cogliere l'umano, commosso messaggio di un coraggioso operare testimone di un impegno culturale rimasto sempre fedele a se stesso, rimasto integro e trasparente, pulito nel proprio preoccuparsi dei destini infelici delle genti umili, pur in un contesto generale ambientale di profonda, crescente corruzione delle coscienze...


Giorgio Trentin

(Riduz. e adatt. da "Nel clima di intime e sofferte meditazioni", in "Omaggio a Michele Mainoli" , catalogo pubblicato a cura dei Comuni di Castelnuovo Scrivia e di Sannazzaro de' Burgondi in occasione delle Mostre personali tenutesi nelle due località nell'agosto - settembre del 1991).


Analisi critica de "L'Autostrada del Sole nella valle del Reno"

…Vorrei soffermarmi brevemente, come esemplificazione del valore artistico di Mainoli, su quella che viene considerata da molti una delle opere maggiori: "L'Autostrada del Sole nella valle del Reno". Datata 1961, ritrae uno scorcio panoramico dell'Autostrada del Sole vicino a Sasso Marconi, nella periferia di Bologna. L'occasione venne per una mostra che la Galleria di Arte Moderna di Roma organizzò, per la Società Autostrade, al Palazzo dell'Esposizione per illustrare le opere su questo tema di alcuni fra gli artisti più importanti. Anche Mainoli venne invitato alla rassegna, e si recò quindi in quel tratto autostradale, prima dell'inaugurazione ufficiale, per ispirarsi e realizzare così il soggetto. L'opera si presenta come una sapiente e vasta geometria di colori, il cui perfetto ordine spirituale lascia pieno respiro poetico alle singole tessere cromatiche (con una rarefatta assimilazione della lezione cubista). Si crea in questo modo un delicato equilibrio tra autonomia di colore e coerenza di immagine, tra impianto grafico e libertà pittorica, tra visione metafisica e prospettiva naturale. Lo sviluppo orizzontale della collina, che lambisce i cieli "annuvolati e segreti" tipici di Mainoli, viene tagliato, adagio adagio, dal tenue svolgimento della striscia d'asfalto. Ed occorre interrogarsi sul senso di quella retta nera, così sinteticamente proposta dall'artista. Vi è senz'altro l'attenzione ai tempi moderni ed alla stagione attuale del progresso scientifico e tecnologico. Ma non basta. Quell'autostrada diventa il simbolo delle possibilità di scelta dell'uomo. E l'essenzialità della visione, con l'assenza del traffico, ne evidenzia il significato metaforico di spazio aperto, che aspetta le tensioni ideali e le scelte etiche dell'uomo. La strada diventa così lo specchio della nostra responsabilità di "amministratori"., ed è questo il nostro tragico e sublime valore: non quello di superbi padroni, né quello di passivi "vuoti a perdere" della storia, ma di uomini chiamati a vivere e a decidere per il bene o per il male di ciò che viene loro affidato. Del resto questa interpretazione non letterale del tema, che va oltre il pretesto d'occasione, viene confermata dalla totale supremazia del paesaggio, che lascia poca esteriore concretezza all'autostrada. Ed è proprio la naturale, spirituale, profonda sensibilità artistica di Mainoli che riesce a creare una purezza di espressione così autentica da evitare sia il bello per il bello, e sia la tentazione della ricetta facile. E nell'Autostrada del Sole si coglie interamente il valore della ricerca estetica di Mainoli, che riesce sempre ad approdare all'energia grandiosa e inerme dell'arte come via per le superiori mete….


Roberto Carlo Delconte

(Riduz. e adatt. da "La torre, l'argilla del tempo, l'argento dei ricordi" in "Omaggio a Michele Mainoli" , catalogo pubblicato a cura dei Comuni di Castelnuovo Scrivia e di Sannazzaro de' Burgondi in occasione delle Mostre personali tenutesi nelle due località nell'agosto - settembre del 1991).


Piccola antologia critica

FRANCO RUSSOLI da " Settimo Giorno "

Un altro giovane, alla sua prima mostra a Milano, è l'incisore Mainoli, ed è una lieta scoperta. Un mondo poetico annuvolato e segreto, che può ricordare Redon e correre il pericolo di letterari espressionismi, cantato in tavole raffinate di passaggi tonali, di dense zone di neri e di grigi. Una visione trepida e sofferta che si esprime in un linguaggio di squisita semplicità.


MARCO VALSECCHI

da " Il Giorno ", 19.3.1957

Nella seconda sala della stessa galleria espone un altro giovane, pittore questi e di origine pavese : Michele Mainoli. Ha studiato a Brera, si è già fatto conoscere nel `55 con una serie di acqueforti di gusto sottile e prezioso. Ora espone una ventina di dipinti che continuano e forse esasperano quella sottigliezza espressiva. E dico sottigliezza non solo in riferimento agli strumenti acuminati con cui incide le sue lastre di rame; ma proprio per quel tanto di rovello e qualche volta di arzigogolato con cui vuole esprimere certe sue visioni di squisite (e anche crudeli per troppa squisitezza) allegorie. Ne deriva un singolare effetto di goticismo raffinato e tagliente, dai nudi d' avorio e dai paesaggi lunari e magici, di certi antichi pittori tedeschi nella cerchia del Cranach. C'è non soltanto l'allusione figurativa di quel mondo prezioso, ma anche la bravura espressiva, che dovrebbe essere castigata soprattutto per chiudere il passaggio a certo fregio letterario, a certa deformazione manieristica. Sotto questa vegetazione raffinata si avverte infatti un temperamento delicato e sincero, una perizia rara.


"National Zeitung ", 19.6.1959

Per la prima volta a Basilea, e precisamente nella galleria Riehentor, il trentaduenne pittore italiano Michele Mainoli, già molto conosciuto oltre i confini della sua patria, espone alcune acqueforti e olii. Il soggetto delle opere di questo profondo artista è 1'uomo, non tanto visto come "homo sapiens", ma piuttosto come "uomo bestia". Alcune "belle" figure che Mainoli ci mostra nelle sue incisioni ricordano le caricature di Brueghel e di Bosch; Mainoli con spietato senso della verità, ricerca il demone interiore dell'uomo. Oltre al pregevole contenuto ci colpisce la tecnica incisoria di questo pittore; le sue opere in cui dominano i toni grigi, i neri "fra l' inferno e il buio" sono caratterizzate dal tratto sensibile e sicuro del grande incisore.


RINO DOSSENA

da " La Voce della Lomellina ", 2.4.1961

Il valore di Michele come incisore e pittore, è ormai un fatto di fama internazionale. Le migliori Gallerie d'Arte in Italia e all'estero hanno curato l'esposizione delle sue opere (la G. Montenapoleone a Milano - la G.Laubli a Zurigo - la G.Riehentor a Basilea - la D'Arcy Gallerie a New York); hanno parlato di lui i critici più rinomati (Russoli - Valsecchi - Budigna); e le sue composizioni, ritenute degne di figurare tra le più valide dell'arte contemporanea, hanno sovente meritato pubblici riconoscimenti (Premio per la Calcografia alla IIa Biennale dell'Incisione Italiana a Venezia - Premio A.Bucci a Monza - Premio del Ministero della Pubblica Istruzione per 1'Incisione a Roma). Le sue opere sono ricercate oltre che da esperti collezionisti privati, da numerosi importanti Musei (Museo Nazionale di Arte Grafica di Zurigo - Museo Nazionale di Pisa - Raccolta Bertarelli del Museo Sforzesco di Milano - New York Public Library di New York - Biblioteca Nazionale Svizzera di Berna). Dell'arte di Mainoli ormai nessuno dubita più. Sono venticinque anni che questo ragazzo si scava gli occhi sulle lastre, che tormenta il bianco delle tele con la violenza della sua ispirazione gagliarda, e tanto, finalmente, gli è valso a tirarsi fuori dalle file dei mestieranti. Nel mondo dell'arte, oggi, dalla Svizzera all'America, dalla Spagna alla Danimarca, alla Germania, vien riconosciuto a Mainoli uno stile inconfondibile, una personalità ` decisamente al di sopra del livello comune. Mainoli viene da una scuola severa e da una lunga esperienza di lavoro, e si esprime valendosi di una tecnica che ha toccato altezze sbalorditive. La sua pittura è aristocratica e raffinata; è complessa ma non concettosa, difficile ma non vanamente astrusa. Michele non dipinge quello che vede con gli occhi ma quello che evoca dal fondo del suo animo, e le cose evocate fa vivere in un lume di mondo sopravvissuto; così che la sua quotidiana vicenda interiore si muta attraverso 1' arte in un intero di storia umana...

THURGANER ZEITUNG

Michele Mainoli nella galleria " Gampiros " , 16.9.1961

Ci sono pittori le cui opere, per quanto piacevoli ed accurate, non coinvolgono; ce ne sono invece altri che immediatamente ci attirano o ci respingono, in ogni caso ci costringono a prendere posizione. A questi ultimi appartiene Michele Mainoli, che espone le sue opere, quadri ed incisioni, nella Galleria Gampiros, ' 45 Frauenfeld. Questi lavori appartengono agli ultimi dieci anni e mostrano in Mainoli un artista originale e un virtuoso del mestiere. Michele Mainoli è ancora giovane. È nato a Sannazzaro de' Burgondi, vicino a Pavia, nel 1927 ed è quindi di origine lombarda. La sua formazione artistica ha luogo a Brera. Dal 1949 ha tenuto mostre e ricevuto alcuni premi; in seguito si è trasferito a Zurigo, dove abita da non molto. L' arte di Mainoli è difficile, è disperata. Sarebbe molto difficoltoso ascriverlo ad una corrente ben precisa della pittura moderna; Mainoli ha accolto in sé le correnti moderne e le ha tradotte in qualcosa di assolutamente personale. I quadri di Mainoli ci conducono nel : mondo surreale dell'assurdo e sono carichi di un pessimismo corrosivo ammantato di una strana, morbida tonalità. Mainoli è un artista inquietante e nei suoi lavori emerge interamente la problematica esistenziale dell'uomo moderno. La pittura di Mainoli è tutta interiore; 1'esterno, 1'esteriore si frantuma come un guscio palesando la verità interiore del1'uomo: nudità e solitudine all'interno di un grande spazio muto. Giustamente il Dr. Huttinger, nella sua presentazione in occasione dell'inaugurazione della mostra, ha parlato di Mainoli come di un pittore metafisico, nel cui mondo spirituale si rintraccia facilmente 1'esperienza esistenzialista dí Jean Paul Sartre. Mainoli mette a nudo 1'umanità e deforma il corpo umano fino al grottesco; le sue figure si stagliano chiare su un fondo privo di luce che molte volte è il risultato della fusione di diversi colori e talvolta richiama da vicino la tecnica e 1' arte della pittura antica. Mainoli utilizza i colori con parsimonia: usa con precisione il marrone scuro degli antichi maestri e usa il verde bottiglia in contrasto con i toni blu e il rosso mattone. Gli uomini nudi nei quadri di Mainoli paiono isolarsi dal resto dell' opera, sono dipinti col colore naturale e non sembrano avere nessun rapporto con lo sfondo...


ENZO DI MARTINO . da " L'Avanti "

Mainoli a Venezia, 27.1.1973

Una stupenda mostra di acqueforti di Michele Mainoli è attualmente allestita alla Galleria dell'Incisione Venezia Viva. Si tratta di una mostra sorprendentemente esaltante per quanti non avessero prima conosciuto 1'opera incisa di questo artista piemontese, purtroppo assente suo malgrado dalle più importanti manifestazioni d'arte di questo ultimo decennio. I fogli ora esposti a Venezia costituiscono infatti, quasi al completo, il corpus unitario dell'opera incisoria di Mainoli negli anni che vanno dal Cinquanta al Sessanta. Sorprenderà allora non soltanto la eccezionale conoscenza e sicurezza del linguaggio ma anche e soprattutto il tessuto del racconto e del mondo di Mainoli, attestato sulle posizioni di un "realismo critico" di straordinaria efficacia per la trascrizione di situazioni quotidiane e misteriose ad un tempo sprofondate in una atmosfera di inquietante surrealtà, percepite con rilevante sensibilità psicologica ed incisoria...

MAURO MAINOLI da " Oltre "

Il colore di una vita,

"Il colore è lo sforzo della materia per diventare luce" amava ripetere mio padre citando - non so con quanta precisione - Gabriele D' Annunzio. E il colore è sempre stato la vera pietra dì paragone di tutto il suo universo sensoriale: di un paesaggio percepiva immediatamente ogni dettaglio cromatico, di una fotografia giudicava con attenzione luci e colori, davanti al televisore la sua prima preoccupazione era quella di saturare correttamente i colori. Ho avuto tempo per riflettere su molti aspetti del singolare carattere di mio padre; questo suo rapporto privilegiato con la luce è senz'altro quello che più gli ho invidiato. In alcuni momenti fortunati riesco a sentire chiaramente quanto sia alto il prezzo che la nostra cultura paga alla diseducazione nella percezione dei colori e alla svalutazione in genere dell'esperienza del vedere, quanto sia spiacevole la nostra visione freddamente sbrigativa di ciò che per l' occhio rappresenta 1' esperienza più alta. Il piacere di guardare che aveva mio padre non l'ho più ritrovato in nessuna persona adulta, nessuno ha mai più sentito il bisogno di confidarmi l'emozione profonda di abbandonarsi ad un colore. Amava la pittura perché amava prima di tutto l'immagine che della vita i suoi occhi gli rimandavano...Il rosso, 1'oro, il blu, il verde, il giallo quanta parte dei nostri pensieri sono? Mio padre invece guardava con la stessa intensità con cui dipingeva: questo è forse 1'insegnamento più alto che mi ha lasciato.


(Da "Michele Mainoli" di Bruno Galvani, Edizioni Galleria d'Arte Ponte Rosso - Milano, 1996)


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